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Da Twitter a X: rebranding vincente oppure no?

Nel gergo tecnico del marketing si definisce brand recall l’indicatore per misurare quanto un marchio viene ricordato dal target dei consumatori. Alcuni brand della storia hanno raggiunto livelli talmente alti di brand recall da arrivare a sostituire con il proprio brand name la denominazione del prodotto stesso (ricordiamo i celebri casi di Scotch, Mocio o Moka), arrivando, in alcuni casi, a dare vita a parole di uso comune comprendenti il nome del brand. Quest’ultimo caso è proprio quello del social Twitter, padre del termine “twittare”, utilizzato ormai da milioni di persone. Ma com’è possibile che un social network così “famoso” divenuto persino parte del linguaggio comune – insieme al suo iconico logo – sia stato rimpiazzato così all’improvviso? Qual è la strategia di marketing dietro a questo rebranding? E soprattutto: ha questo rinnovamento generato degli effetti positivi oppure no?

Da Twitter a X: dalla nascita del social fino a Elon Musk

Il social Twitter – almeno così come lo conoscevamo – è nato nel 2006 dalla mente dell’informatico Jack Dorsey. Il suo nome deriva dal modo di dire trovato dal suo creatore (twitter = cinguettio di uccelli) che indicava nel gergo una breve raffica di informazioni. Trovandolo perfetto per il social ideato, Dorsey scelse questo nome che conseguentemente portò alla creazione dell’iconico logo dell’uccellino azzurro e al famoso sound effect del “tweet”, generato dalla piattaforma alla pubblicazione di ogni nuovo contenuto. Dalla sua nascita la popolarità di Twitter è via via cresciuta negli anni arrivando, nel 2013, a mettere in contatto tra loro oltre 500 milioni di utenti. Dopo questa data il social dei 140 caratteri (poi diventati 280) ha avuto fortune alterne fino allo scorso anno – precisamente il 27 ottobre 2022 – quando il magnate Elon Musk ha acquistato il social (dopo una lunga trattativa iniziata ad aprile) per ben 44 miliardi di dollari con tanto di annuncio tramite un ormai celeberrimo tweet (“the bird is freed” ovvero “l’uccellino è stato liberato”). Da subito l’imprenditore sudafricano ha fatto capire che c’era aria di cambiamento nell’azienda tanto che la sua prima decisione come nuovo proprietario è stata quella di licenziare 4 top manager e successivamente circa 4000 dipendenti.

Da Twitter a X: il rebranding e il cambio nome

L’avvento di Musk sul social ha in pochissimo tempo cambiato approccio e volto alla piattaforma, tanto che a luglio di quest’anno egli stesso ha annunciato che Twitter sarebbe diventato un social diverso e omnicomprensivo ma soprattutto che “si sarebbe sbarazzato del logo con l’uccellino e di tutte le parole a esso associato, incluso “tweet”, dando di fatti il via al rebranding che ha poi portato a X (nome scelto dallo stesso Musk). Ma più che un cambio di marchio o di strategia quella del fondatore di Tesla è sembrata una vera e propria “rivoluzione”. Infatti tante altre aziende Big Tech hanno – proprio qualche anno fa – effettuato un rebranding sostanziale come ad esempio Facebook, diventato Meta per sottolineare l’impegno dell’azienda verso il metaverso. La differenza sostanziale però è che anche se il nome dell’azienda è cambiato, quello dei singoli prodotti/social è rimasto lo stesso (Facebook continua ad essere Facebook e Instagram pure). Musk invece ha trasformato in maniera più che repentina un marchio consolidato e riconoscibile a livello planetario come Twitter, generando un cambio di percezione enorme in utenti e inserzionisti che – spaventati anche dalla nuova politica di tolleranza verso commenti d’odio, omofobi o razzisti – hanno fatto diminuire di oltre il 50% le entrate pubblicitarie della piattaforma, facendo registrare una perdita di valore stimabile tra i 4 e i 20 miliardi di dollari.

Da Twitter a X: i primi problemi per il simbolo X

I fan e gli affezionati di Twitter hanno dapprima pensato che quella di Musk fosse un’operazione commerciale o una strategia per rinnovare e dare nuova linfa al social ma hanno in poco tempo capito quanto l’imprenditore facesse sul serio. La discussa X, infatti, è stata proiettata sull’HQ e successivamente un’altra X luminosa è stata installata sul tetto dell’azienda generando sensazioni contrastanti e anche un certo fastidio negli abitanti del quartiere di San Francisco. Risultato? A seguito di lamentele e reclami da parte dei residenti della zona e un ultimatum delle autorità della città che avevano chiesto l’autorizzazione per una verifica sulla sicurezza, la X è stata subito smantellata dal tetto. Un primo segnale – abbastanza plateale – di quanto questo nuovo marchio risultasse avverso ai più.

Da Twitter a X: l’annuncio di Musk che X potrebbe fallire

Proprio qualche giorno fa la sconcertante notizia: Twitter, da poco ribattezzato X, potrebbe fallire. L’ammissione è stata fatta proprio dal patron della piattaforma che il 20 agosto ha affermato: “La triste verità è che non ci sono grandi social network al momento. Noi potremmo fallire, come molti hanno predetto, ma faremo del nostro meglio fino alla fine”. Questa notizia arriva a seguito di un grave errore di programmazione del software che ha causato la perdita di molti dati, come fotografie e storici tweet postati sul social fino al 2014, tra cui quello di Barack Obama dopo la vittoria elettorale nel 2012. Molti tecnici hanno ipotizzato che questo malfunzionamento sia stato causato proprio da un problema di “risparmio sui costi” mentre altri ancora hanno pensato che si sia trattato di un’azione voluta, un repulisti da parte di Musk utile a dare un taglio netto col passato.

Da Twitter a X: rebranding sì, rivoluzioni no

Abbiamo iniziato l’articolo parlando di brand recall (memorabilità del brand), valore che spesso nel marketing viene associato ad altri indicatori come la brand awareness (conoscenza del brand) e alla brand loyalty (fedeltà al marchio). Possiamo dire che l’insieme di tutti questi parametri compone l’identità e il valore del marchio stesso, definita spesso come brand equity, un vero e proprio dna della marca talmente profondo e radicato (anche nella mente degli utenti-consumatori) che difficilmente si può modificare o scardinare. Quello che Musk ha fatto è stato proprio modificare in maniera sostanziale la brand equity di Twitter, cambiando non solo logo e nome ma cercando di modificare l’essenza stessa del social. Un rebranding è di per sé un’operazione delicata – ma spesso necessaria – che migliaia di brand, anche i più grandi e famosi al mondo, svolgono una o più volte nell’arco della loro “vita” per crescere e migliorare. Toccare l’identità di un brand invece, snaturarla e trasformarla in maniera radicale (per di più nel giro di 6 mesi come ha fatto Musk con Twitter) è tutt’altra cosa e rischia di avere effetti disastrosi dal punto di vista comunicativo, di marketing e conseguentemente economico. La cosa che lascia ancora più perplessi è che questo rebranding-rivoluzione del social, innescato dal miliardario sudafricano, non sia nato da una strategia o una necessità commerciale bensì dal fatto che il magnate, apprezzando particolarmente la lettera in questione, abbia voluto equiparare il volto del suo nuovo social a quello delle sue altre società. Esse, infatti, fatta eccezione per Tesla, comprendono tutte la lettera X (Musk ha una banca online chiamata X.com, l’azienda tech spaziale SpaceX e una società di intelligenza artificiale denominata X.AI). A volte anche un visionario imprenditore di successo può commettere errori di marketing e di comunicazione.

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